Dieci anni di accoglienza
Seminario sui Rifugiati a Genova

Il Comune e il terzo settore, insieme, se ne occupano dal 2001. Un modello di successo, da rinnovare per il futuro. Le esperienze di Torino e Milano. Incontro di livello nazionale al Museo del Mare

Testo Alternativo
L’inizio è fulminante: una persona, in mezzo alla sala, si alza e parla in una lingua straniera; un’altra si alza e traduce in italiano, poi un altra parla in un’altra lingua, c’è di nuovo la traduzione… Si tratta di parti della Dichiarazione universale dei diritti umani.
L’emozione è fortissima, nella sala gremita dell’Auditorium del Galata Museo del Mare”, dove l’Assessore Roberta Papi sta per prendere la parola davanti a più di cento persone che partecipano al seminario “Rifugiati a Genova”.

Un uomo dice: «Sono Afgano e ho lasciato la mia patria perché volevano farmi combattere». Una donna: «Al mio Paese le donne sono maltrattate…»
Quanto dura questo strano inizio? Forse un minuto, forse due. Ha l’effetto di un tuffo in un mare limpido in piena estate: siamo dentro, adesso; ci siamo entrati di colpo; siamo nel mondo dei rifugiati e dei servizi che curano la loro accoglienza e il loro percorso di integrazione, nell’ambito di progetti nati in tutta Italia con la direzione, il coordinamento e il lavoro di operatori di Comuni o Province, insieme a soggetti del terzo settore.

Richiedenti asilo e rifugiati a Genova: non è del tutto scontato che se ne parli, a quanto pare. «L’adesione al Programma Nazionale Asilo nel 2001 e al Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati nel 2003 – rivendica Papi – fu volontaria: non si trattava di una questione di primaria importanza per la città, ma ci fu il desiderio di lanciarsi, di partecipare a un’attività, nuova per l’Italia, di promozione dei diritti umani, creando un sistema integrato con il terzo settore, applicando con convinzione il modello del lavoro di rete: una rete che governa, gestisce, sviluppa il progetto e il pensiero per adeguare l’azione alle esigenze emergenti, per mettere la persona al centro».
A quel tempo l’Italia «era da molti anni, insieme alla Grecia, la pecora nera d’Europa nell’accoglienza dei rifugiati», come ricorderà alla fine dell’incontro Daniela Di Capua del Servizio Centrale Sprar, l’ufficio di Roma, gestito dall’associazione dei Comuni, che si occupa di monitorare, coordinare e assistere i vari progetti locali, cioè i nodi della rete nazionale. Genova fece perciò una scelta particolarmente importante, come rilevante è stato il suo contributo, in questi anni, alla crescita di un sistema di accoglienza che «si è meritato l’elogio formale delle istituzioni europee – è ancora Di Capua che parla – per la validità del modello e per la qualità del servizio».
Nelle parole dell’assessore e in quelle della rappresentante dell’Anci è compreso il senso del seminario di oggi: dopo un decennio di attività e di evoluzione dei singoli progetti e dell’intero sistema, fare il punto (e per farlo quale sede sarebbe più appropriata di questo museo dedicato alla navigazione e alle migrazioni?) sul percorso di questi anni e ipotizzare le rotte future.

Tutti di grande interesse gli interventi, a partire da quello di Danilo Parodi, della Direzione Politiche Sociali del Comune di Genova, che, con il contributo di Stefano Tabò e Federica Canella della Fondazione Auxilium e di Simona Binello del Consorzio Agorà, illustra le modalità operative dei due progetti Sprar genovesi, quello per adulti e quello per i minorenni, già sommariamente trattati ieri da questo giornale.
Paolo Cremonesi, responsabile del Pronto Soccorso dell’Ospedale Galliera, riferisce sulle problematiche sanitarie dei rifugiati e sull’integrazione del servizio sanitario con quello socio-educativo, su come negli anni il suo servizio abbia deciso di ribaltare la procedura del primo approccio dell’ospedale con il rifugiato: qualche anno fa la visita medica precedeva l’incontro con lo psicologo; adesso avviene il contrario e i risultati sono migliori. Non bisogna dimenticare infatti che, nell’approccio medico a una persona che sia fuggita dal proprio Paese perché vittima di torture o di violenze o per altri gravi motivi e che abbia affrontato in condizioni drammatiche un viaggio verso l’ignoto, è necessario ipotizzare un Disturbo Post-traumatico da Stress, una sofferenza che richiede un adeguato trattamento.

Gli interventi di Roberto Samperi, per il Comune di Torino, e di Marco Serra e Daniela Donelli per quello di Milano, mettendo in luce le differenze organizzative rispetto a Genova e le soluzioni originali che si sono affermate nelle loro città, mostrano come sostanzialmente l’ispirazione dello Sprar sia la stessa e come l’evoluzione dei progetti nasca nell’interazione del pubblico (a livello locale e centrale) con il privato sociale, con le stesse persone che sono alloggiate, assistite, istruite ed aiutate nell’inserimento lavorativo e, in definitiva, con le comunità locali in cui l’inserimento avviene. I maggiori problemi derivano dalla complessità dell’intervento statale soprattutto riguardo ai finanziamenti, sulla cui disponibilità in futuro non si può essere certi e a cui si può accedere con procedure complesse e sempre diverse.

Prima della conclusione giova ricordare ancora Di Capua, molto critica sulla gestione, dal 2008 a oggi, della cosiddetta emergenza sbarchi: un’emergenza che non è derivata dal numero di persone giunte sul suolo italiano, quantità che il Paese avrebbe potuto assorbire senza troppi problemi, ma dalla decisione di affidarne la gestione alla Protezione Civile. «Il sistema ha funzionato dove, a livello locale, si è deciso di rifarsi al modello dello Sprar. In altre parti del Paese la gestione è stata affidata ad associazioni nate in modo estemporaneo, senza curriculum, lasciando da parte chi aveva le competenze. In alcuni posti addirittura le persone sono state ospitate in alberghi, affidando la gestione dell’intervento agli stessi albergatori». Un grande spreco di denaro, per i costi elevati e perché le persone parcheggiate a cura della Protezione Civile non hanno compiuto validi percorsi di integrazione e di inserimento lavorativo; il peso della loro assistenza ricadrà certamente, in seguito, sui servizi sociali dei Comuni.
L’auspicio è che la Protezione Civile torni presto alle sue naturali competenze e che, per i problemi che riguardano gli stranieri in condizione di bisogno, si applichi estesamente il modello dello Sprar, che funziona bene, ricordando sempre che «tutelare i diritti umani significa porre ogni essere umano in condizione di accedere al diritto» e che perciò finanziamenti insufficienti costituiscono un problema etico prima che tecnico.

La conclusione tocca a Letizia Santolamazza, dirigente del Settore Promozione Sociale del Comune, che osserva le somiglianze tra i “progetti di eccellenza” di Milano, Torino e Genova, in cui la persona è sempre al centro, la “governance” è a più livelli e i principi ispiratori sono l’apprendimento, la crescita della conoscenza del mondo (un’occasione per gli operatori e per le comunità locali), lo sviluppo delle reti, la corresponsabilità, l’esperienza di convivenza, la condivisione di valori.
Sull’emergenza Nord Africa Santolamazza rivela che a Genova c’è stato un iniziale atteggiamento aggressivo di una parte della popolazione, ma poi «abbiamo accolto 180 persone e non se n’è accorto nessuno… Gli stessi vertici del Comune ci chiedono: ma dove sono?» Eppure ci sono, sono seguiti e procedono nel loro percorso. Genova ha applicato il modello Sprar e «coglie i frutti di quell’esperienza».
14 marzo 2012
Ultimo aggiornamento: 15/03/2012
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