Innovazione, produttività, qualità:
tre assi portanti del “Patto cittadino”

Le iniquità prodotte dalla manovra finanziaria lasciano un’Italia impaurita e indignata, ma impongono di andare oltre. L’appello partito dal Sindaco di Genova può produrre un salto di qualità nel rapporto con il mondo dell’economia,  il sistema delle autonomie e una cittadinanza libera ed attiva.

Foto di Mimmo Giordano
Quale Italia ci consegna il dopo manovra finanziaria?
Non l’Italia della politica e dei palazzi, delle banche e delle borse, ma quella che s’incontra ai bar, sulle piazze, sui treni, e qualche volta persino ai presidi di protesta?

Un’Italia spaurita, timorosa di perdere i propri risparmi, il proprio lavoro, il proprio negozio. Indignata magari per i contenuti della manovra, ma la paura, che non è proprio sinonimo di responsabilità, sembra capace di tenere a bada per i più l’indignazione.
E nello stesso tempo arroccata sul proprio presente e sul proprio passato. Sui suoi diritti acquisiti, sui suoi, anche quando piccolissimi, privilegi che la differenziano da chi sta peggio. A cui la resistenza sul quel che c’è, così come è, pare l’unica difesa possibile, contro le intemperie del mercato, in attesa che il mercato stesso – quello che non si vede, che non dipende dalla loro azione – ricominci a funzionare.

Nel frattempo il più possibile, tutto come prima. Magari un po’ meno, ma come prima.
Inutile dire che così il Paese non esce dalla crisi, che è superabile solo con uno sforzo condiviso e consapevole, capace di cambiare se stessi e il vecchio gioco dell’economia, il perverso ping pong tra spreco e tirare la cinghia, che è alla base della crisi stessa.

In altri tempi, di crisi altrettanto grave – i primi anni e gli ultimi degli anni ’90 – l’Italia fu il Paese della concertazione. Governo, imprese, banche, sindacati dei lavoratori si trovarono insieme per trovare una via d’uscita, redistribuendo sacrifici e opportunità, prospettando misure di risparmio e obiettivi di crescita.

La concertazione non è da tanti anni più di moda. Eppure è da lì che sono venuti gli ultimi impulsi positivi nel Paese, non solo perché è stata l’elemento decisivo perché l’Italia partecipasse al progetto europeo, ma perché da lì ebbero impulso le prime azioni positive – presto, ahimè, compresse e tradite – su veri e più gravi ritardi dell’Italia: l’istruzione, la ricerca, l’innovazione, l’ammodernamento dello Stato sociale.

Oggi quei patti non sono in quella forma più proponibili. Non solo per la palese non credibilità di chi ci governa, ma anche perché lo Stato nazione sembra aver perso rispetto a quegli anni la capacità di reagire sui fondamentali dell’economia – sottrattagli dall’onda senza fine della speculazione finanziaria – ma ancora di più la capacità di progettare cambiamenti e di indurre comportamenti innovativi.

In questi anni queste capacità si sono spostate nelle città, che hanno trovato loro modi diversi, più o meno sensati, di far fronte, guardando in avanti, alle ristrettezze della situazione economica.
Proprio per questo è ancora più grave e drammatico il peso del tutto spropositato che la manovra economica fa gravare sul sistema degli Enti locali. Sproporzionato alla quota di debito di cui gli Enti locali sono responsabili; disastroso per le possibilità di innestare nuove possibilità di sviluppo.
Ne sono sembrati consapevoli gli attori economici e sociali chiamati dalla sindaco a ragionare sulle ricadute della manovra sul bilancio del Comune di Genova. E credo non mancherà il sostegno alle azione che Genova e i Comuni italiani metteranno in atto per correggere gli aspetti più iniqui della manovra.

Ma occorre andare oltre. Perché se è indubbio che se si determinano drammatiche conseguenze sul terreno dei beni pubblici essenziali – dal trasporto pubblico, alla assistenza, al sistema culturale della città – la responsabilità è di chi ci governa, le conseguenze ricadranno su quelli che ai beni pubblici ci credono, che nei servizi ci lavorano, e che dei servizi usufruiscono, di quanti al sistema degli Enti locali forniscono progetti e prodotti. Occorre allora fare un salto di qualità nel dialogo fra Comune, sistema delle autonomie, imprese, lavoratori. Rapportando le proprie indicazioni, i propri progetti, alla situazione economica in atto. Lavorando a difendere l’essenziale e al contempo sviluppando progettualità innovativa per continuare ad assicurare ai cittadini i servizi fondamentali.
Un patto cittadino quindi, che recuperi lo spirito e lo slancio della fase migliore della concertazione nelle condizioni mutate. E che ridia un senso allo stesso federalismo, che, contraddetto clamorosamente dalle decisioni del Governo può essere rilanciato solo dall’azione consapevole delle comunità locali.

Tre possono essere gli assi portanti. Innovazione, benché una pura logica continuista porta alla progressiva riduzione del lavoro, dei beni, dei servizi; Produttività, per riuscire a fornire beni e servizi pubblici a costi decrescenti; Qualità, per rendere sempre più alto il valore dei beni pubblici e privati prodotti nel territorio e il lavoro di quanti a produrre quei beni e quei servizi sono impegnati.
Che chiami in causa accanto alle organizzazione dell’impresa e del lavoro, anche l’Università, la ricerca, la scuola, il mondo della cultura, l’associazionismo sociale e le organizzazioni del volontariato. E le risorse della cittadinanza attiva, libera, consapevole e responsabile, che è la risorsa più grande che una città può mettere in campo per resistere alla crisi, per aprire la strada ad un nuovo e diverso sviluppo. Quella cittadinanza attiva, quella voglia di protagonismo, che animava la parte più grande del popolo venuto a Genova a dieci anni dal G8.

*L'autore è assessore alla Cultura del Comune di Genova
Genova, 1 agosto 2011
Ultimo aggiornamento: 09/08/2011
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