L'idea di dedicare una giornata alla memoria e all'impegno in ricordo delle vittime delle mafie nacque a Palermo un giorno in cui si stavano commemorando “il giudice Falcone e i ragazzi della scorta”. «Una donna – ricorda don Ciotti, il sacerdote fondatore di Libera – mi guardò con gli occhi gonfi di lacrime e mi disse: ma perché il nome di mio figlio non lo dicono? Era la madre di uno degli agenti. E' nata lì la consapevolezza dell'importanza che ha per un genitore, un fratello, un nonno, ascoltare il nome della persona cara persa, e abbiamo capito che il primo diritto di una persona è essere chiamato per nome. Per questo abbiamo voluto che ci fosse almeno un giorno l'anno in cui ricordare tutte le vittime di mafia con il loro nome. C'è la responsabilità della memoria e il dovere di trasmetterla, ma non solo in quella giornata: il dovere deve essere nella continuità».
Così oggi, l'appuntamento fissato per il 21 marzo di ogni anno da Libera (1.600 gruppi nazionali e poi un'articolazione territoriale che coinvolge numerosissime realtà locali) è diventato un momento di consapevolezza, un “abbraccio” che va oltre il ricordo. E veicola notizie che fanno riflettere: come quella, ad esempio, che oggi, oltre il 70 per cento dei familiari delle vittime di mafia non conosce le cose fino in fondo e chiede verità e giustizia.
Alla presentazione alla stampa della giornata di Genova del 17 marzo, Libera ha invitato due attiviste con una storia terribile alle spalle, ma non per questo rassegnate o vogliose di vendetta. Piuttosto motivate a raccontare un'esperienza che, con lo sviluppo e il radicamento delle mafie in tutt'Italia, purtroppo deve indurre a non far abbassare la guardia a nessuno.
Ecco la loro testimonianza.
ALESSANDRA CLEMENTE
Ho 24 anni, sono laureata in giurisprudenza e sto facendo pratica legale presso l'associazione antiracket italiana. Quello che posso fare come figlia di una vittima è prestarvi i miei occhi per vedere lo schifo e la vergogna che sono le mafie in questo Paese, e perché ognuno di noi non può sentirsi tagliato fuori da questo problema. Avevo dieci anni quando è successo, e per me ogni giornata del 21 marzo celebrata in diverse città è stata motivo di crescita. Ho sentito mia madre viva. Aveva 39 anni l'11 giugno 1997. Io ne avevo dieci, ero sul balcone e la guardavo mentre rientrava dall'asilo tenendo per mano mio fratello Francesco, di 5 anni.
La nostra casa era al Vomero, un quartiere residenziale di Napoli, dove la camorra non ti consegna a quel degrado quotidiano di altre zone cittadine. Ci sono gli ospedali, i centri commerciali.
Al Vomero due clan avversari, i Cimino-Alfano e il clan Caiazzo, gestivano affari economici: non droga, non sparavano. Quel giorno si cercavano per ammazzarsi. E nella sparatoria mia madre rimase colpita senza sapere nemmeno perché. Io dal balcone ho visto tutto, ma preferisco ricordare di lei il suo sorriso, non la sua morte.
Questo sono le mafie: morire senza motivo. Quell'omicidio scatenò l'opinione pubblica, ma oggi quell'indignazione deve essere sempre alimentata, non deve spegnersi, perché se c'è la consapevolezza che il problema ci riguarda tutti, intendo tutto il Paese, la ferita non è solo mia e di Napoli; il senso del pericolo non lo viviamo solo noi.
Grazie a Libera e alle giornate della memoria ho capito che potevo urlare il mio dolore, e che il nome e la storia di mia madre Silvia possono avere un significato non solo per me e per i familiari delle altre vittime di mafia, ma anche per le persone che si sentono lontane da queste cose. Questo dolore non si è trasformato in odio, in rassegnazione, ma in cose migliori. Oggi in Campania sono 150 le vittime della camorra riconosciute innocenti, e 111 sono le famiglie di queste vittime.
L'abbraccio del 21 marzo non è forma. Se questi proiettili colpiscono anche te la ferita è di tutti, e il giorno dopo tutti troviamo la forza di reagire, di dire i nostri no. Non è né stupido né inutile credere e impegnarsi.
Io ora studio per entrare in magistratura, sono presidente di un'associazione intitolata a mia madre, “Tutto ciò che è libera, tutto ciò che unisce”, che si occupa del risarcimento economico in sede civile dei familiari delle vittime delle mafie, perché non ci devono essere vittime di serie A e di serie B; e si occupa anche dei minori che sono in carcere in Campania, partendo dalla constatazione chiarissima di mio padre, che chi sparò quel giorno aveva fatto una scelta assurda per il proprio futuro: quella della camorra. Così, intercettando e aiutando questi ragazzi a uscire dal tunnel – perché la giustizia non è vendetta - mia madre può profumare ancora di vita.
FLAVIA FAMA'
Sono la figlia di Serafino Famà, un avvocato penalista ucciso a Catania il 9 novembre 1995 perché faceva semplicemente il suo lavoro per la giustizia. Avevo 13 anni, oggi ne ho 30 e sono laureata sono laureata in giurisprudenza. Mio padre è stato ucciso perché si è opposto alla richiesta di un boss, Giuseppe Maria Di Giacomo, di far testimoniare sua cognata Stella Maria Corrado, per farle fornire elementi che potevano scagionarlo. Lei non voleva assolutamente testimoniare, ed essendo una prossima congiunta la linea processuale adottata da mio padre fu quella di avvalersi della facoltà di non rispondere. E se ne assunse la responsabilità davanti al giudice visto che fu lui ad andare in aula per conto della sua cliente dichiarando che la sua assistita non avrebbe deposto. Di Giacomo volle vendetta. Contro i carabinieri di Catania che lo avevano arrestato mise una bomba nella caserma; poi, dal carcere, diede ordine di far uccidere mio padre. La sera di quel 9 novembre fu seguito da alcuni killer che agirono a volto scoperto e lasciarono incolume Michele, il suo collega di studio e amico di sempre, perché doveva raccontare e trasmettere un segnale forte all'avvocatura e alla città intera. Tutti quanti, e io stessa capimmo che la mafia non era solo a Palermo, ma operava sotto casa nostra, e che non si sparavano tra loro, ma uccidevano chiunque si opponesse ai loro piani. Per dieci anni prima di incontrare Libera e don Luigi non volevo parlarne, noi quei proiettili li sentiamo tutti i giorni. Per noi leggere quei nomi vuol dire essere consapevoli che dietro ognuno di esso c'è una famiglia distrutta. Da qui nasce l'impegno. Nel mio caso l'impegno affinché nessun'altra figlia a 13 anni debba scoprire da un momento all'altro che non rivedrà mai più suo padre.
Ora sto facendo pratica legale. Come avvocato mi occupo di diritto civile, diritto di famiglia. Vorrei aiutare chi arriva nel nostro Paese con tante speranze e poi viene rimpatriato: trovo che sia un'altra faccia della criminalità organizzata e dell'ingiustizia.
Così oggi, l'appuntamento fissato per il 21 marzo di ogni anno da Libera (1.600 gruppi nazionali e poi un'articolazione territoriale che coinvolge numerosissime realtà locali) è diventato un momento di consapevolezza, un “abbraccio” che va oltre il ricordo. E veicola notizie che fanno riflettere: come quella, ad esempio, che oggi, oltre il 70 per cento dei familiari delle vittime di mafia non conosce le cose fino in fondo e chiede verità e giustizia.
Alla presentazione alla stampa della giornata di Genova del 17 marzo, Libera ha invitato due attiviste con una storia terribile alle spalle, ma non per questo rassegnate o vogliose di vendetta. Piuttosto motivate a raccontare un'esperienza che, con lo sviluppo e il radicamento delle mafie in tutt'Italia, purtroppo deve indurre a non far abbassare la guardia a nessuno.
Ecco la loro testimonianza.
ALESSANDRA CLEMENTE
Ho 24 anni, sono laureata in giurisprudenza e sto facendo pratica legale presso l'associazione antiracket italiana. Quello che posso fare come figlia di una vittima è prestarvi i miei occhi per vedere lo schifo e la vergogna che sono le mafie in questo Paese, e perché ognuno di noi non può sentirsi tagliato fuori da questo problema. Avevo dieci anni quando è successo, e per me ogni giornata del 21 marzo celebrata in diverse città è stata motivo di crescita. Ho sentito mia madre viva. Aveva 39 anni l'11 giugno 1997. Io ne avevo dieci, ero sul balcone e la guardavo mentre rientrava dall'asilo tenendo per mano mio fratello Francesco, di 5 anni.
La nostra casa era al Vomero, un quartiere residenziale di Napoli, dove la camorra non ti consegna a quel degrado quotidiano di altre zone cittadine. Ci sono gli ospedali, i centri commerciali.
Al Vomero due clan avversari, i Cimino-Alfano e il clan Caiazzo, gestivano affari economici: non droga, non sparavano. Quel giorno si cercavano per ammazzarsi. E nella sparatoria mia madre rimase colpita senza sapere nemmeno perché. Io dal balcone ho visto tutto, ma preferisco ricordare di lei il suo sorriso, non la sua morte.
Questo sono le mafie: morire senza motivo. Quell'omicidio scatenò l'opinione pubblica, ma oggi quell'indignazione deve essere sempre alimentata, non deve spegnersi, perché se c'è la consapevolezza che il problema ci riguarda tutti, intendo tutto il Paese, la ferita non è solo mia e di Napoli; il senso del pericolo non lo viviamo solo noi.
Grazie a Libera e alle giornate della memoria ho capito che potevo urlare il mio dolore, e che il nome e la storia di mia madre Silvia possono avere un significato non solo per me e per i familiari delle altre vittime di mafia, ma anche per le persone che si sentono lontane da queste cose. Questo dolore non si è trasformato in odio, in rassegnazione, ma in cose migliori. Oggi in Campania sono 150 le vittime della camorra riconosciute innocenti, e 111 sono le famiglie di queste vittime.
L'abbraccio del 21 marzo non è forma. Se questi proiettili colpiscono anche te la ferita è di tutti, e il giorno dopo tutti troviamo la forza di reagire, di dire i nostri no. Non è né stupido né inutile credere e impegnarsi.
Io ora studio per entrare in magistratura, sono presidente di un'associazione intitolata a mia madre, “Tutto ciò che è libera, tutto ciò che unisce”, che si occupa del risarcimento economico in sede civile dei familiari delle vittime delle mafie, perché non ci devono essere vittime di serie A e di serie B; e si occupa anche dei minori che sono in carcere in Campania, partendo dalla constatazione chiarissima di mio padre, che chi sparò quel giorno aveva fatto una scelta assurda per il proprio futuro: quella della camorra. Così, intercettando e aiutando questi ragazzi a uscire dal tunnel – perché la giustizia non è vendetta - mia madre può profumare ancora di vita.
FLAVIA FAMA'
Sono la figlia di Serafino Famà, un avvocato penalista ucciso a Catania il 9 novembre 1995 perché faceva semplicemente il suo lavoro per la giustizia. Avevo 13 anni, oggi ne ho 30 e sono laureata sono laureata in giurisprudenza. Mio padre è stato ucciso perché si è opposto alla richiesta di un boss, Giuseppe Maria Di Giacomo, di far testimoniare sua cognata Stella Maria Corrado, per farle fornire elementi che potevano scagionarlo. Lei non voleva assolutamente testimoniare, ed essendo una prossima congiunta la linea processuale adottata da mio padre fu quella di avvalersi della facoltà di non rispondere. E se ne assunse la responsabilità davanti al giudice visto che fu lui ad andare in aula per conto della sua cliente dichiarando che la sua assistita non avrebbe deposto. Di Giacomo volle vendetta. Contro i carabinieri di Catania che lo avevano arrestato mise una bomba nella caserma; poi, dal carcere, diede ordine di far uccidere mio padre. La sera di quel 9 novembre fu seguito da alcuni killer che agirono a volto scoperto e lasciarono incolume Michele, il suo collega di studio e amico di sempre, perché doveva raccontare e trasmettere un segnale forte all'avvocatura e alla città intera. Tutti quanti, e io stessa capimmo che la mafia non era solo a Palermo, ma operava sotto casa nostra, e che non si sparavano tra loro, ma uccidevano chiunque si opponesse ai loro piani. Per dieci anni prima di incontrare Libera e don Luigi non volevo parlarne, noi quei proiettili li sentiamo tutti i giorni. Per noi leggere quei nomi vuol dire essere consapevoli che dietro ognuno di esso c'è una famiglia distrutta. Da qui nasce l'impegno. Nel mio caso l'impegno affinché nessun'altra figlia a 13 anni debba scoprire da un momento all'altro che non rivedrà mai più suo padre.
Ora sto facendo pratica legale. Come avvocato mi occupo di diritto civile, diritto di famiglia. Vorrei aiutare chi arriva nel nostro Paese con tante speranze e poi viene rimpatriato: trovo che sia un'altra faccia della criminalità organizzata e dell'ingiustizia.