«Gli studi dimostrano che il successo di un intervento di supporto a una famiglia non dipende dalla maggiore o minore gravità dei problemi». Paola Milani, dell’Università di Padova, Direttore scientifico di Pippi, informa il pubblico dell’Auditorium dell’Istituto Nautico San Giorgio, alla Darsena, durante il seminario “Pippi. Il progetto, la metodologia e gli strumenti” tenutosi oggi.
La gravità dei problemi non influisce, si diceva: a difficoltà gravi può seguire un esito positivo, mentre spesso interventi socio-sanitari su problematiche che appaiono lievi sulla carta si rivelano difficili. Il successo dipende principalmente dal progetto e dalle risorse impiegate o presenti. Secondo Marianne Berry, dell’Università del Kansas, “il maggior fattore di successo è l’impegno della famiglia”. Perciò l’intervento con le “famiglie negligenti” deve essere un intervento di sostegno che chiami la famiglia a impegnarsi per la soluzione dei problemi.
Questo pensiero è alla base del programma Pippi, che coinvolge cento famiglie in 10 città italiane e costituisce nel nostro Paese un’importante novità, l’esempio di una modalità di lavoro sociale che nelle parti del mondo in cui si parlano l’inglese e il francese è già diffusa nella forma dei cosiddetti “home intensive programs”.
Le piccole dimensioni non ingannino: Pippi ha la pretesa di adattare all’Italia un metodo d’intervento, su basi certe e con procedure e risultati verificabili e condivisibili dalla comunità tecnico-scientifica, che valga per quelle famiglie che, non essendo in tutto e per tutto adeguate, non sono neanche gravemente maltrattanti. Quelle, per intenderci, in cui i figli non corrono un pericolo immediato per cui sia strettamente necessario l’allontanamento, ma non si trovano nelle condizioni ideali per il proprio sviluppo.
La ricetta, dettagli tecnici a parte, è in un massiccio, e limitato nel tempo (18 – 24 mesi) impiego di risorse, soprattutto operatori e ore di lavoro, e nella valorizzazione di ciò che la famiglia, gli amici, i parenti, il territorio in generale possono offrire al nucleo in difficoltà, e nella collaborazione tra operatori sociali, sanitari, della scuola e del terzo settore, creando le condizioni per cui la famiglia sia protagonista dell’intervento. Sono collaborazioni e sinergie, queste, che purtroppo non appartengono alla tradizione italiana, anche se da sempre sono desiderate e perseguite da alcuni operatori.
Tendono a confermare questa verità le testimonianze degli operatori genovesi del sociale e del sanitario, pubblici e del privato sociale, che contribuiscono come relatori ai lavori della giornata. Questa la sintesi di Daniela Cavallo, Educatrice Professionale del Comune: «Quando mi hanno illustrato il progetto per chiedermi di farne parte, ho pensato che avevo sempre desiderato lavorare così».
Le espressioni che più ricorrono negli interventi sono: tempo, clima di fiducia, rispetto, trasparenza, linguaggio chiaro e semplice. Un lavoro giocato soprattutto sulla relazione, all’interno di percorsi complessi ma costituiti da piccoli passi, piccole azioni “misurabili”, per costruire un sapere scientifico su come lavorare con le famiglie nello specifico dell’Italia.
Pippi è circa a metà percorso: è partito formalmente a gennaio 2011, ma il lavoro concreto, con i bambini e le famiglie, è iniziato un anno fa. A Genova come nelle altre città l’impresa ha coinvolto assistenti sociali, psicologi, educatori, medici, insegnanti, genitori, parenti e amici, risorse del territorio, i minori stessi. La competenza dei genitori è stata sostenuta con gruppi di auto aiuto (con facilitatore esperto), famiglie d’appoggio, educatori domiciliari; anche i bambini hanno i loro gruppi e i loro spazi di espressione.
Grazie anche a un ottimo supporto informatico si è costituita una comunità di operatori che sono in grado di comunicare con facilità tra loro, con l’Università di Padova, con il Ministero delle Politiche Sociali, e di scambiarsi dati, esperienze, opinioni. In ogni città ci sono tutor, che sostengono gli operatri nel loro lavoro.
È un grosso impegno, sul piano personale, di tutte le persone che partecipano, e organizzativo: per migliorare l’offerta di servizi al cittadino, ma soprattutto per i bambini seguiti e per le loro famiglie che, se adeguatamente aiutate, possono funzionare sufficientemente bene, e per promuovere la salute, perché in futuro ci siano nel nostro Paese giovani e adulti più sani.
La gravità dei problemi non influisce, si diceva: a difficoltà gravi può seguire un esito positivo, mentre spesso interventi socio-sanitari su problematiche che appaiono lievi sulla carta si rivelano difficili. Il successo dipende principalmente dal progetto e dalle risorse impiegate o presenti. Secondo Marianne Berry, dell’Università del Kansas, “il maggior fattore di successo è l’impegno della famiglia”. Perciò l’intervento con le “famiglie negligenti” deve essere un intervento di sostegno che chiami la famiglia a impegnarsi per la soluzione dei problemi.
Questo pensiero è alla base del programma Pippi, che coinvolge cento famiglie in 10 città italiane e costituisce nel nostro Paese un’importante novità, l’esempio di una modalità di lavoro sociale che nelle parti del mondo in cui si parlano l’inglese e il francese è già diffusa nella forma dei cosiddetti “home intensive programs”.
Le piccole dimensioni non ingannino: Pippi ha la pretesa di adattare all’Italia un metodo d’intervento, su basi certe e con procedure e risultati verificabili e condivisibili dalla comunità tecnico-scientifica, che valga per quelle famiglie che, non essendo in tutto e per tutto adeguate, non sono neanche gravemente maltrattanti. Quelle, per intenderci, in cui i figli non corrono un pericolo immediato per cui sia strettamente necessario l’allontanamento, ma non si trovano nelle condizioni ideali per il proprio sviluppo.
La ricetta, dettagli tecnici a parte, è in un massiccio, e limitato nel tempo (18 – 24 mesi) impiego di risorse, soprattutto operatori e ore di lavoro, e nella valorizzazione di ciò che la famiglia, gli amici, i parenti, il territorio in generale possono offrire al nucleo in difficoltà, e nella collaborazione tra operatori sociali, sanitari, della scuola e del terzo settore, creando le condizioni per cui la famiglia sia protagonista dell’intervento. Sono collaborazioni e sinergie, queste, che purtroppo non appartengono alla tradizione italiana, anche se da sempre sono desiderate e perseguite da alcuni operatori.
Tendono a confermare questa verità le testimonianze degli operatori genovesi del sociale e del sanitario, pubblici e del privato sociale, che contribuiscono come relatori ai lavori della giornata. Questa la sintesi di Daniela Cavallo, Educatrice Professionale del Comune: «Quando mi hanno illustrato il progetto per chiedermi di farne parte, ho pensato che avevo sempre desiderato lavorare così».
Le espressioni che più ricorrono negli interventi sono: tempo, clima di fiducia, rispetto, trasparenza, linguaggio chiaro e semplice. Un lavoro giocato soprattutto sulla relazione, all’interno di percorsi complessi ma costituiti da piccoli passi, piccole azioni “misurabili”, per costruire un sapere scientifico su come lavorare con le famiglie nello specifico dell’Italia.
Pippi è circa a metà percorso: è partito formalmente a gennaio 2011, ma il lavoro concreto, con i bambini e le famiglie, è iniziato un anno fa. A Genova come nelle altre città l’impresa ha coinvolto assistenti sociali, psicologi, educatori, medici, insegnanti, genitori, parenti e amici, risorse del territorio, i minori stessi. La competenza dei genitori è stata sostenuta con gruppi di auto aiuto (con facilitatore esperto), famiglie d’appoggio, educatori domiciliari; anche i bambini hanno i loro gruppi e i loro spazi di espressione.
Grazie anche a un ottimo supporto informatico si è costituita una comunità di operatori che sono in grado di comunicare con facilità tra loro, con l’Università di Padova, con il Ministero delle Politiche Sociali, e di scambiarsi dati, esperienze, opinioni. In ogni città ci sono tutor, che sostengono gli operatri nel loro lavoro.
È un grosso impegno, sul piano personale, di tutte le persone che partecipano, e organizzativo: per migliorare l’offerta di servizi al cittadino, ma soprattutto per i bambini seguiti e per le loro famiglie che, se adeguatamente aiutate, possono funzionare sufficientemente bene, e per promuovere la salute, perché in futuro ci siano nel nostro Paese giovani e adulti più sani.