Seconda giornata di mobilitazione oggi, con sciopero e presidi davanti ai concelli per i lavoratori della Fincantieri di Sestri, dopo la firma separata – da parte di Fim-Cisl, Uilm-Uil, Ugl e e Failms in sede ministeriale - del piano di riorganizzazione aziendale che prevede solo 400 mila euro di investimenti e il completamento della messa in sicurezza delle aree. Una firma, respinta dalla Fiom, che ha provocato non solo l’ennesima spaccatura sindacale, ma una serie di reazioni dei lavoratori convocati in assemblea dal sindacato di categoria della Cgil che in tutto questo vede la conferma delle intenzioni di chiusura degli storici stabilimenti di Sestri e di Castellammare di Stabia con i conseguenti licenziamenti di 1.243 lavoratori in tutto il gruppo (518 in media a Genova il prossimo anno su 741). Da qui la decisione di continuare la lotta con scioperi anche durante le feste di fine anno, in attesa degli incontri già programmati con il ministro Passera, e di bloccare la consegna della nave Oceania, in consegna a marzo, ultimo lavoro in calendario per il cantiere sestrese prima che cali il sipario.
In occasione dello sviluppo della vertenza Fincantieri, ospitiamo un intervento che ci è giunto intervento da Andrea Ranieri - assessore alla cultura ed ex sindacalista - sul tema più generale della Finmeccanica e della politica industriale genovese.
(g.san.)
di ANDREA RANIERI
Mi sono trovato a discutere dell’assetto delle Partecipazioni statali in Liguria, da segretario della Cgil, alla fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90. Tempi durissimi, che segnano il ridimensionamento dell’assetto produttivo della nostra città. Ed era evidente già allora l’intreccio perverso con i partiti – allora soprattutto la Dc e il Psi – che condizionava e orientava le scelte industriali. Mi è capitato di veder cambiare i vertici delle società per intervento della magistratura nel corso di una trattativa, fra un appuntamento e l’altro. E già allora si parlava di geopolitica, di come cioè i potentati locali del Sud e del Nord condizionassero le scelte di politica industriale. Ma poi si finiva per parlare di impiantistica, di siderurgia, di elettromeccanica, di navi e di cantieri, perché c’era comunque l’idea – messa, ahimè, in tante circostanze a dura prova – che quel che era in gioco era il futuro industriale dell’Italia, la tenuta economica e sociale del nostro territorio, il lavoro e la professionalità di operai, tecnici, di ingegneri di prim’ordine.
La politica industriale non era un’invocazione vana, un lamento continuo per quello che non c’è, ma il terreno su cui ci si confrontava, anche in mezzo a terribili distorsioni politiche e giudiziarie.
L’Iri e la Finmeccanica si sentivano ancora protagonisti di una grande missione, quella di presidiare e far crescere settori strategici per il Paese, l’industria di base, le macchine per costruire altre macchine, ad alta intensità di tecnologia e di ricerca, che l’industria privata, quella delle automobili e dei frigoriferi, non sembrava in grado di presidiare e di far progredire.
Le vertenze quasi sempre portavano a Roma, finivano sul tavolo del governo, ma di un governo che sembrava ancora avere nelle sue mani le leve per decidere il futuro economico del Paese. Ho scritto “sembrava”, perché forse proprio allora iniziava la fase alta della globalizzazione, quella che metteva al primo posto il potere della grande finanza transnazionale, rendeva possibile agli investitori girare il mondo per cercare i posti dove era possibile produrre a costi e a diritti minori, rendeva sempre più aleatorio il rapporto tra le aziende e i territori che le ospitavano. Il mercato, da costruzione sociale e socialmente regolata, diventava un dogma, a cui l’economia reale, quella delle cose e degli uomini, doveva inchinarsi e adattarsi. I tempi delle decisioni si abbreviano, prendono i ritmi frenetici delle borse. La politica industriale, che è previsione, scommessa sul futuro, si contrae fino a perdere senso, diventa la giustificazione a posteriori di scelte obbligate dai vincoli finanziari.
Alcuni pensavano che questa sarebbe stata la fine della corruzione e della collusione impropria fra industria e politica. Che il mercato avrebbe spazzato via i “boiardi”.
Penso al contrario che la riduzione dell’economia alla finanza, il primato assoluto degli azionisti sugli stake holders, sulle ragioni degli operai e del territorio, la rapacità – così la definisce Guido Rossi – di chi muove e controlla il mercato “impersonale”, aumenti gli spazi per la corruzione, faccia venir meno quegli anticorpi che tenevano la corsa alla ricchezza nei limiti della legge e dell’etica.
Così il venir meno di una politica industriale nazionale ha ridotto la competizione dei territori sulla localizzazione delle imprese alla pura geopolitica, in cui la vicinanza al potere del notabilato locale condiziona le scelte più del saper fare, della storia industriale e delle competenze dei territori.
Credo che Genova, piuttosto che provare a posizionarsi in questa gara a perdere, dovrà provare a far ripartire un ragionamento sulle politiche industriali come ha saputo fare nei suoi tempi migliori, chiedendo al governo di confrontarsi su cosa serve all’Italia, e su cosa Genova e le aziende Finmeccanica che a Genova hanno sede possono fare per questo.
Trovo straordinario che quando tutti segnalano come una delle cause della crisi Finmeccanica il declinare delle spese militari nel mondo – uno dei pochi effetti positivi della crisi economica in corso, con disinvoltura si parli di cedere il civile per concentrarci sul militare e l’aeronautica. Che tra l’altro è, come si sa, il settore meno di mercato del mondo, in cui la collusione con la politica – e ahimè anche eclatanti fenomeni di corruzione – è più forte.
Nel mondo si sta finalmente discutendo della riconversione verde dell’economia. E’ scesa finalmente in campo anche la Cina, che annuncia i più grandi investimenti mai effettuati nella storia sulla riconversione ecologica dell’economia per ridurre le emissioni di carbonio del 40% entro il 2020. E che su questo aprirà la porta agli investimenti e alle tecnologie straniere, e su questo si prepara ad orientare i suoi stessi investimenti esteri.
Se ha un senso la partecipazione pubblica nell’industria ce l’ha proprio in questa direzione, che è quella che il mondo dovrà imboccare se il mondo vorrà sopravvivere. E questo vuol dire logistica, per il governo dei processi di mobilità, e vuol dire energia, per risparmiarla e per produrla in modo pulito, vuol dire investire sulle tecnologie e sulle imprese che pensano.
Ed è su questo che c’è in Finmeccanica un patrimonio da non disperdere, al proprio interno e nei rapporti con l’Università e la ricerca. E la questione della localizzazione può essere giocata dalle città oltre la dimensione geopolitica, costruendo le condizioni strutturali e infrastrutturali, offrendo il proprio territorio e le proprie competenze, in funzione di questo progetto di sviluppo.
Genova è stata ed è una città la cui storia e il cui futuro industriale è intrecciato alle sorti di Finmeccanica. E può oggi giocare un ruolo essenziale non solo perché ospita le imprese di punta di Finmeccanica in questi settori, ma anche perché ha scelto di essere smart city, città intelligente perché si propone di ridurre i tassi di inquinamento, di produrre energia più pulita, di governare a questo fine gli stessi processi di mobilità e di orientare in tal senso lo stile di vita delle persone.
Su questo si sta costruendo una grande alleanza fra imprese, Università, centri di ricerca, si sta provando a far diventare questo progetto senso comune fra chi a Genova vive e lavora.
E si dialoga su questo con Torino e Milano, per ricostruire una nuova idea di Nord-ovest basato sulla ricerca, sulla cultura, sull’innovazione e sulla sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo.
Politica industriale per l’Italia e per Finmeccanica oggi ha senso se asseconda questo progetto, se rafforza i poli di impresa e di concorrenza coerenti con questa idea di sviluppo, se si riappropria di una idea di futuro, e non si accontenta di occupare gli interstizi che gli altri lasciano per un momento, solo per un momento, scoperti.
E di proporre una politica industriale che non si limiti a parlare alle borse, ma sia capace di entrare in relazione col desiderio delle persone di un mondo in cui sia più facile e bello vivere ed abitare.
In occasione dello sviluppo della vertenza Fincantieri, ospitiamo un intervento che ci è giunto intervento da Andrea Ranieri - assessore alla cultura ed ex sindacalista - sul tema più generale della Finmeccanica e della politica industriale genovese.
(g.san.)
di ANDREA RANIERI
Mi sono trovato a discutere dell’assetto delle Partecipazioni statali in Liguria, da segretario della Cgil, alla fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90. Tempi durissimi, che segnano il ridimensionamento dell’assetto produttivo della nostra città. Ed era evidente già allora l’intreccio perverso con i partiti – allora soprattutto la Dc e il Psi – che condizionava e orientava le scelte industriali. Mi è capitato di veder cambiare i vertici delle società per intervento della magistratura nel corso di una trattativa, fra un appuntamento e l’altro. E già allora si parlava di geopolitica, di come cioè i potentati locali del Sud e del Nord condizionassero le scelte di politica industriale. Ma poi si finiva per parlare di impiantistica, di siderurgia, di elettromeccanica, di navi e di cantieri, perché c’era comunque l’idea – messa, ahimè, in tante circostanze a dura prova – che quel che era in gioco era il futuro industriale dell’Italia, la tenuta economica e sociale del nostro territorio, il lavoro e la professionalità di operai, tecnici, di ingegneri di prim’ordine.
La politica industriale non era un’invocazione vana, un lamento continuo per quello che non c’è, ma il terreno su cui ci si confrontava, anche in mezzo a terribili distorsioni politiche e giudiziarie.
L’Iri e la Finmeccanica si sentivano ancora protagonisti di una grande missione, quella di presidiare e far crescere settori strategici per il Paese, l’industria di base, le macchine per costruire altre macchine, ad alta intensità di tecnologia e di ricerca, che l’industria privata, quella delle automobili e dei frigoriferi, non sembrava in grado di presidiare e di far progredire.
Le vertenze quasi sempre portavano a Roma, finivano sul tavolo del governo, ma di un governo che sembrava ancora avere nelle sue mani le leve per decidere il futuro economico del Paese. Ho scritto “sembrava”, perché forse proprio allora iniziava la fase alta della globalizzazione, quella che metteva al primo posto il potere della grande finanza transnazionale, rendeva possibile agli investitori girare il mondo per cercare i posti dove era possibile produrre a costi e a diritti minori, rendeva sempre più aleatorio il rapporto tra le aziende e i territori che le ospitavano. Il mercato, da costruzione sociale e socialmente regolata, diventava un dogma, a cui l’economia reale, quella delle cose e degli uomini, doveva inchinarsi e adattarsi. I tempi delle decisioni si abbreviano, prendono i ritmi frenetici delle borse. La politica industriale, che è previsione, scommessa sul futuro, si contrae fino a perdere senso, diventa la giustificazione a posteriori di scelte obbligate dai vincoli finanziari.
Alcuni pensavano che questa sarebbe stata la fine della corruzione e della collusione impropria fra industria e politica. Che il mercato avrebbe spazzato via i “boiardi”.
Penso al contrario che la riduzione dell’economia alla finanza, il primato assoluto degli azionisti sugli stake holders, sulle ragioni degli operai e del territorio, la rapacità – così la definisce Guido Rossi – di chi muove e controlla il mercato “impersonale”, aumenti gli spazi per la corruzione, faccia venir meno quegli anticorpi che tenevano la corsa alla ricchezza nei limiti della legge e dell’etica.
Così il venir meno di una politica industriale nazionale ha ridotto la competizione dei territori sulla localizzazione delle imprese alla pura geopolitica, in cui la vicinanza al potere del notabilato locale condiziona le scelte più del saper fare, della storia industriale e delle competenze dei territori.
Credo che Genova, piuttosto che provare a posizionarsi in questa gara a perdere, dovrà provare a far ripartire un ragionamento sulle politiche industriali come ha saputo fare nei suoi tempi migliori, chiedendo al governo di confrontarsi su cosa serve all’Italia, e su cosa Genova e le aziende Finmeccanica che a Genova hanno sede possono fare per questo.
Trovo straordinario che quando tutti segnalano come una delle cause della crisi Finmeccanica il declinare delle spese militari nel mondo – uno dei pochi effetti positivi della crisi economica in corso, con disinvoltura si parli di cedere il civile per concentrarci sul militare e l’aeronautica. Che tra l’altro è, come si sa, il settore meno di mercato del mondo, in cui la collusione con la politica – e ahimè anche eclatanti fenomeni di corruzione – è più forte.
Nel mondo si sta finalmente discutendo della riconversione verde dell’economia. E’ scesa finalmente in campo anche la Cina, che annuncia i più grandi investimenti mai effettuati nella storia sulla riconversione ecologica dell’economia per ridurre le emissioni di carbonio del 40% entro il 2020. E che su questo aprirà la porta agli investimenti e alle tecnologie straniere, e su questo si prepara ad orientare i suoi stessi investimenti esteri.
Se ha un senso la partecipazione pubblica nell’industria ce l’ha proprio in questa direzione, che è quella che il mondo dovrà imboccare se il mondo vorrà sopravvivere. E questo vuol dire logistica, per il governo dei processi di mobilità, e vuol dire energia, per risparmiarla e per produrla in modo pulito, vuol dire investire sulle tecnologie e sulle imprese che pensano.
Ed è su questo che c’è in Finmeccanica un patrimonio da non disperdere, al proprio interno e nei rapporti con l’Università e la ricerca. E la questione della localizzazione può essere giocata dalle città oltre la dimensione geopolitica, costruendo le condizioni strutturali e infrastrutturali, offrendo il proprio territorio e le proprie competenze, in funzione di questo progetto di sviluppo.
Genova è stata ed è una città la cui storia e il cui futuro industriale è intrecciato alle sorti di Finmeccanica. E può oggi giocare un ruolo essenziale non solo perché ospita le imprese di punta di Finmeccanica in questi settori, ma anche perché ha scelto di essere smart city, città intelligente perché si propone di ridurre i tassi di inquinamento, di produrre energia più pulita, di governare a questo fine gli stessi processi di mobilità e di orientare in tal senso lo stile di vita delle persone.
Su questo si sta costruendo una grande alleanza fra imprese, Università, centri di ricerca, si sta provando a far diventare questo progetto senso comune fra chi a Genova vive e lavora.
E si dialoga su questo con Torino e Milano, per ricostruire una nuova idea di Nord-ovest basato sulla ricerca, sulla cultura, sull’innovazione e sulla sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo.
Politica industriale per l’Italia e per Finmeccanica oggi ha senso se asseconda questo progetto, se rafforza i poli di impresa e di concorrenza coerenti con questa idea di sviluppo, se si riappropria di una idea di futuro, e non si accontenta di occupare gli interstizi che gli altri lasciano per un momento, solo per un momento, scoperti.
E di proporre una politica industriale che non si limiti a parlare alle borse, ma sia capace di entrare in relazione col desiderio delle persone di un mondo in cui sia più facile e bello vivere ed abitare.