L’attrice genovese, dopo la scuola del Teatro Stabile di Genova, ha debuttato nel 1976 a fianco di Giorgio Albertazzi, recitando poi con lui in numerosi altri spettacoli.
Nella sua intensa carriera ha interpretato, rivisitato e ambientato nel contemporaneo diversi personaggi femminili classici. Vincitrice di quattro premi UBU, due premi della critica e il Premio Duse, è stata protagonista di spettacoli di autori contemporanei fra cui Maria Stuarda (2001) di Maraini, Ti ho amata per la tua voce (2004) dal romanzo di Nassib, Fahrenheit 451 (2007) di Bradbury, con la regia di Ronconi, in cui ha recitato nei ruoli di Clarisse e del vecchio professor Faber, Tutto su mia madre (2011) di Almodovar, Un angelo sopra Bagdad (2011) di Thompson.
Nel 1992 ha vinto il Premio David di Donatello quale migliore attrice non protagonista del film Maledetto il giorno che t'ho incontrata di Carlo Verdone.
Appena ultimate le repliche al Testro Duse (articolo) ed in attesa dello spettacolo, previsto il 4 dicembre al Testro Cargo, l’abbiamo incontrata per avere da lei sensazioni e opinioni dal mondo del teatro.
- Quali sono le motivazioni che la spingono a scegliere di interpretare un personaggio piuttosto che un altro? e qual è il messaggio che vuole far arrivare al pubblico?-
“Noi attori e registi creiamo degli spettacoli con cui vogliamo dire qualche cosa, il messaggio che cerchiamo di dare, per lo meno per quanto mi riguarda, è fondamentalmente quello di fare un lavoro totalmente necessario e onesto. Quando dico necessario dico tutto. Se io porto in scena uno spettacolo, per me deve essere una necessità farlo e se è una necessità farlo diventa necessario anche per il pubblico. Il teatro ha bisogno di questa base.
Lo spettacolo che tento di fare è quello che abbia un senso qualunque argomento tratti.
Evidentemente in un momento della mia vita c’è stato qualcosa che mi ha fatto scattare la necessità di raccontare. Questa è la base. Quello che mi spinge a lavorare su di un testo piuttosto che su di un altro è solo questo.”
- Interpretare un personaggio più attuale, come Julia Lambert, è stato più difficoltoso rispetto alle donne dei classici greci quali Medea, Elettra e Ecuba?
“Sono due cose completamente diverse, interpretare un testo classico ti dà la sicurezza e la certezza di raggiungere un certo tipo di obiettivo, di far funzionare lo spettacolo, lo spettacolo arriva, è quasi sempre un successo perché la scrittura è perfetta; invece la drammaturgia più contemporanea, come può essere considerata questa rappresentazione (“La Diva”), è più un rischio, da un certo punto di vista è più eccitante, non sai mai quale effettivamente sarà il risultato.
Da una parte c’è l’emozione di un testo perfetto che porti in scena e sai che è di una potenza strepitosa, vai sul sicuro anche se è faticoso portarlo sulle spalle; dall’altra è un salto nel vuoto, non sai cosa arriverà veramente di quel testo. Sono degli esperimenti.”
- Quanto c’è di Elisabetta Pozzi in Julia Lambert?
“Sono del parere che l’attore metta sempre qualcosa di se stesso nei personaggi che interpreta, se non altro il proprio corpo, il proprio corpo e la propria voce che poi muta a seconda dei ruoli che porta sulla scena.
Anzitutto dono al personaggio il mio corpo. Io abito in quel personaggio, lui mi suggerisce dei comportamenti che sono anche i miei, c’è una simbiosi, un momento in cui ti sembra di distinguere qualcosa che è veramente tuo.
Il personaggio ti aiuta a capire tante cose di te che magari non sapevi.
Non saprei dire cosa c’è di mio nei ruoli che porto sulla scena perché come avviene spesso vi è un’identificazione tra me ed il personaggio che interpreto.”
- Genova, città dei teatri, cosa pensa del tessuto culturale della città?
“L’ho frequentata poco negli ultimi tempi, per cui non posso giudicare più di tanto. Credo che soffra di un problema presente anche in altre città dove le istituzioni predisposte ad occuparsi di cultura, secondo me non compiono perfettamente il loro dovere, mentre ci sono realtà più piccole che forse lo fanno con più passione, con più amore e con una straordinaria vitalità.
Mi sembra ci siano delle iniziative, ma credo anche che questo momento storico non aiuti. Vi sono dei paesi in cui, nei momenti difficili, la cultura cresce maggiormente ad esempio per un bisogno di vivere una dimensione di bellezza, che, a volte, viene soddisfatto dalle istituzioni, da chi è predisposto a fare questo ed ha i fondi necessari per attuarlo.
Non mi sembra che Genova abbia questa vivacità, però, ripeto, non sono in grado di giudicare veramente”.
- Ed i giovani registi?
“Io lavoro tantissimo con registi più giovani: Carmelo Rifici, Andrea Chiodi e Alberto Giusta.
Mi sembra che lì ci sia molta vivacità, vedo che ci sono compagnie che si muovono e lo fanno con sapienza, che propongono testi piuttosto belli.
Vi sono iniziative molto valide che dovrebbero essere aiutate. Se queste compagnie vengono supportate allora riescono ad avere un senso.
Esistono belle realtà che nascono, vivono ed hanno una certa attenzione ma non da parte dei media e da chi dovrebbe promuovere questo tipo di spettacolo che non muore, ma vive perché, fortunatamente, nonostante la mancanza di sponsorizzazione, riescono ad avere un loro pubblico”.
Lasciamo e ringraziamo Elisabetta Pozzi per la sua disponibilità.
Nella speranza che, riprendendo una frase dell'attrice, “un lavoro totalmente necessario e onesto. Quando dico necessario dico tutto. Se io porto in scena uno spettacolo, per me deve essere una necessità farlo e se è una necessità farlo diventa necessario anche per il pubblico. Il teatro ha bisogno di questa base”, si possa migliorare e rinnovare il teatro per superare la situazione economica che stiamo vivendo.
Quello della Cultura è un settore pesantemente colpito dal taglio dei fondi, forse poco considerando come l’apporto e l’indotto dello stesso possano essere un sostegno per l’economia.
Nella sua intensa carriera ha interpretato, rivisitato e ambientato nel contemporaneo diversi personaggi femminili classici. Vincitrice di quattro premi UBU, due premi della critica e il Premio Duse, è stata protagonista di spettacoli di autori contemporanei fra cui Maria Stuarda (2001) di Maraini, Ti ho amata per la tua voce (2004) dal romanzo di Nassib, Fahrenheit 451 (2007) di Bradbury, con la regia di Ronconi, in cui ha recitato nei ruoli di Clarisse e del vecchio professor Faber, Tutto su mia madre (2011) di Almodovar, Un angelo sopra Bagdad (2011) di Thompson.
Nel 1992 ha vinto il Premio David di Donatello quale migliore attrice non protagonista del film Maledetto il giorno che t'ho incontrata di Carlo Verdone.
Appena ultimate le repliche al Testro Duse (articolo) ed in attesa dello spettacolo, previsto il 4 dicembre al Testro Cargo, l’abbiamo incontrata per avere da lei sensazioni e opinioni dal mondo del teatro.
- Quali sono le motivazioni che la spingono a scegliere di interpretare un personaggio piuttosto che un altro? e qual è il messaggio che vuole far arrivare al pubblico?-
“Noi attori e registi creiamo degli spettacoli con cui vogliamo dire qualche cosa, il messaggio che cerchiamo di dare, per lo meno per quanto mi riguarda, è fondamentalmente quello di fare un lavoro totalmente necessario e onesto. Quando dico necessario dico tutto. Se io porto in scena uno spettacolo, per me deve essere una necessità farlo e se è una necessità farlo diventa necessario anche per il pubblico. Il teatro ha bisogno di questa base.
Lo spettacolo che tento di fare è quello che abbia un senso qualunque argomento tratti.
Evidentemente in un momento della mia vita c’è stato qualcosa che mi ha fatto scattare la necessità di raccontare. Questa è la base. Quello che mi spinge a lavorare su di un testo piuttosto che su di un altro è solo questo.”
- Interpretare un personaggio più attuale, come Julia Lambert, è stato più difficoltoso rispetto alle donne dei classici greci quali Medea, Elettra e Ecuba?
“Sono due cose completamente diverse, interpretare un testo classico ti dà la sicurezza e la certezza di raggiungere un certo tipo di obiettivo, di far funzionare lo spettacolo, lo spettacolo arriva, è quasi sempre un successo perché la scrittura è perfetta; invece la drammaturgia più contemporanea, come può essere considerata questa rappresentazione (“La Diva”), è più un rischio, da un certo punto di vista è più eccitante, non sai mai quale effettivamente sarà il risultato.
Da una parte c’è l’emozione di un testo perfetto che porti in scena e sai che è di una potenza strepitosa, vai sul sicuro anche se è faticoso portarlo sulle spalle; dall’altra è un salto nel vuoto, non sai cosa arriverà veramente di quel testo. Sono degli esperimenti.”
- Quanto c’è di Elisabetta Pozzi in Julia Lambert?
“Sono del parere che l’attore metta sempre qualcosa di se stesso nei personaggi che interpreta, se non altro il proprio corpo, il proprio corpo e la propria voce che poi muta a seconda dei ruoli che porta sulla scena.
Anzitutto dono al personaggio il mio corpo. Io abito in quel personaggio, lui mi suggerisce dei comportamenti che sono anche i miei, c’è una simbiosi, un momento in cui ti sembra di distinguere qualcosa che è veramente tuo.
Il personaggio ti aiuta a capire tante cose di te che magari non sapevi.
Non saprei dire cosa c’è di mio nei ruoli che porto sulla scena perché come avviene spesso vi è un’identificazione tra me ed il personaggio che interpreto.”
- Genova, città dei teatri, cosa pensa del tessuto culturale della città?
“L’ho frequentata poco negli ultimi tempi, per cui non posso giudicare più di tanto. Credo che soffra di un problema presente anche in altre città dove le istituzioni predisposte ad occuparsi di cultura, secondo me non compiono perfettamente il loro dovere, mentre ci sono realtà più piccole che forse lo fanno con più passione, con più amore e con una straordinaria vitalità.
Mi sembra ci siano delle iniziative, ma credo anche che questo momento storico non aiuti. Vi sono dei paesi in cui, nei momenti difficili, la cultura cresce maggiormente ad esempio per un bisogno di vivere una dimensione di bellezza, che, a volte, viene soddisfatto dalle istituzioni, da chi è predisposto a fare questo ed ha i fondi necessari per attuarlo.
Non mi sembra che Genova abbia questa vivacità, però, ripeto, non sono in grado di giudicare veramente”.
- Ed i giovani registi?
“Io lavoro tantissimo con registi più giovani: Carmelo Rifici, Andrea Chiodi e Alberto Giusta.
Mi sembra che lì ci sia molta vivacità, vedo che ci sono compagnie che si muovono e lo fanno con sapienza, che propongono testi piuttosto belli.
Vi sono iniziative molto valide che dovrebbero essere aiutate. Se queste compagnie vengono supportate allora riescono ad avere un senso.
Esistono belle realtà che nascono, vivono ed hanno una certa attenzione ma non da parte dei media e da chi dovrebbe promuovere questo tipo di spettacolo che non muore, ma vive perché, fortunatamente, nonostante la mancanza di sponsorizzazione, riescono ad avere un loro pubblico”.
Lasciamo e ringraziamo Elisabetta Pozzi per la sua disponibilità.
Nella speranza che, riprendendo una frase dell'attrice, “un lavoro totalmente necessario e onesto. Quando dico necessario dico tutto. Se io porto in scena uno spettacolo, per me deve essere una necessità farlo e se è una necessità farlo diventa necessario anche per il pubblico. Il teatro ha bisogno di questa base”, si possa migliorare e rinnovare il teatro per superare la situazione economica che stiamo vivendo.
Quello della Cultura è un settore pesantemente colpito dal taglio dei fondi, forse poco considerando come l’apporto e l’indotto dello stesso possano essere un sostegno per l’economia.